L’età industriale, come è noto ai più, oltre ad aver introdotto standard di processo e di prodotto ha introdotto gli standard di qualità, parametri ripetibili qualificanti la qualità di un output industriale. Attraverso l’avanzamento che il secolo scorso ha portato nell’industria, tali criteri di conformità sono stati applicati a molteplici ambiti, ampliando le le frontiere di interesse e includendo dunque anche il settore terziario comprendendo importanti fattori come quello sociale e del lavoro. Ma come è avvenuto questo processo e quali sono i risvolti economici e sociali a cui tuttora si guarda con interesse e talvolta anche con un certo margine di incertezza? Vi raccontiamo il caso di Amazon che ha destato l’attenzione dei media, ma forse non è arrivato a tutti i consumatori.
Amazon, dai libri al dettaglio
Nata come libreria online Amazon si espande velocemente in maniera orizzontale comprendendo nel breve tempo un gran novero di tipologie di prodotti di consumo. Dall’elettronica a alla cosmetica ormai Amazon è forse il più grande distributore del mondo. Nel 2013 l’azienda già spediva 608 milioni di pacchi l’anno solo negli Stati Uniti: ciò lascia immaginare la grandezza dell’impero creato da Jeff Bezos, fondatore della società. Quando si pensa infatti alle società Online Sales vengono in mente società liquide, smart, altamente tecnologiche che pongono in secondo piano la manodopera. Tuttavia Amazon, attraverso centinaia di magazzini in tutto il mondo, da lavoro a oltre 300.000 persone in tutto il mondo, configurandosi come un importante datore di lavoro globale. La maggior parte dei lavoratori, come si può immaginare, sono impiegati come magazzinieri, impiegati in grandi strutture volte alla preparazione e allo smistamento dei pacchi. Con fatturato di 232 miliardi di dollari la società è divenuta un colosso a livello mondiale, superando tantissime società anche molto più consolidate. Cosa c’è dietro la fortuna di Amazon? Sicuramente un’idea imprenditoriale geniale, la forza della logistica, l’innovazione tecnologica e un approccio di marketing avanzato e in continua evoluzione. Ma qualche volta bisogna anche spiare nel dietro le quinte di un’azienda per capirne alcuni meccanismi, non sempre del tutto ortodossi.
Il lavoro in Amazon
Per meglio comprendere le prassi interne di un colosso come quello di Amazon è fondamentale confrontarsi con chi ogni giorno vive l’impresa, ne fa parte e ci lavora attivamente in una delle mansioni che costituiscono la spina dorsale del business, il magazziniere. Non sono di certo lusinghiere le parole di un membro del personale della super centrale di smistamento di Piacenza che ha confessato alla rivista Business Insider le pratiche e i regolamenti che vigono nelle centrali Amazon. Questo lavoratore smista ogni giorno da 18 mila a 24 mila pacchi, percorrendo circa 10 km. Nessuno immagina il lavoro di magazziniere come semplice, ma l’organizzazione dei centri Amazon ci fa comprendere come siano diversi i ruoli afferenti a questa mansione:
- I receive hanno il compito di registrare i prodotti in arrivo nel centro
- I runner spostano pesanti ceste cariche di prodotti da una parte all’altra dello stabilimento
- Gli outbound sono invece tenuti a caricare i furgoncini che trasporteranno i pacchi nelle principali città italiane
Ognuna di queste fasi viene attentamente monitorata dal team dei dirigenti Amazon. A partire dalle pistole scanner della prima fase, su cui è registrato un codice identificativo della risorsa che la utilizza al fine di vedere la quantità di prodotti scansionati al “passo Amazon” che non purtroppo non da il nome a un passo di danza, ma riguarda un’andatura da tenere per rispettare gli standard, a cui sono molto attenti i responsabili di produzione. Gli addetti che raccontano queste pratiche parlando anche di una situazione che favorisce episodi di stress e attacchi di panico, eventi che si verificano con insolita frequenza. Inoltre sembra non venga applicata nessuna rotazione nelle mansioni, neanche in caso di malattia, e questo vale naturalmente anche per i turni. I dipendenti che hanno fatto uscire queste notizie parlano di un ambiente di stress e ansia, facendo notare la presenza di un supporto psicologico fornito direttamente dal sindacato.
Tuttavia qualcuno potrebbe opinare sul fatto che le persone che lamentavano queste condizioni sono le stesse che hanno aderito agli scioperi indetti dal sindacato in occasione di uno dei black friday organizzati da Amazon. Se anche coloro che hanno fatto uscire queste dichiarazioni fossero mossi più da un intento meramente politico piuttosto che dalla salvaguardia del lavoro, ciò non giustificherebbe i ritmi incessanti che hanno fatto lamentare i più. Tanto è vero che è stato affermato “Ma noi siamo i loro robot e a nessuno importa se la mia caviglia, sottoposta alla stessa torsione da destra a sinistra per più di anno, ora non ha più cartilagine”. Uscita infelice quella del dipendente del colosso americano perché, di fatto, l’azienda ha preso provvedimenti. Non che l’idea sia venuta al management per la lamentela di chicchessia ma la notizia che ha riportato Amazon sotto le luci ingloriose dei riflettori mondiali è stata una breaking news inaspettata e che ci riguarda direttamente.
Un robot made in Italy
Da alcuni giorni infatti gira la notizia del robot made in Italy acquistato da Amazon “che fa perdere migliaia di posti di lavoro”. La macchina, di progettazione e realizzazione umbra, è in grado di impacchettare 600/700 pacchi ma soprattutto, come fa notare ilGiornale.it “non beve, non chiacchiera, non va in bagno o a fumare, non si ammala, non è sindacalizzata”. A qualcuno verrà da dire “oltre al danno anche la beffa” dato che il taglio stimato è di oltre 1.300 dipendenti, un’enormità. Il colosso americano si affretta a rispondere “i risparmi dovuti all’efficienza saranno reinvestiti in nuovi servizi per i clienti, in cui continueranno a essere creati nuovi posti di lavoro”, ma non serve a molto: la bomba è stata sganciata. Tuona dunque Reuters con il titolo “Un robot al posto del personale per preparare i pacchi di Amazon” e a nulla è valsa la rettifica del vice presidente per le operazioni Dave Clark che afferma “Forse un titolo diverso sarebbe stato meglio…”. Ma purtroppo il titolone di Reuters rimbomba nella testa dell’opinione pubblica, sempre più sensibile alla tematica del lavoro. In entrambi i casi Amazon fatica a trovare il bandolo di una matassa difficile da sciogliere ma, dall’altra parte, continua a vendere e ad acquisire società terze, dando vita all’ossimoro concettuale per cui il consumatore non è anche lavoratore, almeno non della ditta da cui acquista.
Volendo restare ben lungi dalla sterile critica a favore dei lavoratori e contro i colossi sfruttatori – una critica che a volta non prende in considerazione le aspettative dei consumatori – si può comunque affermare senza timore di smentita che il lavoro, inteso come mezzo sociale, diventa un fattore cruciale di comunicazione e di immagine di un brand. Sebbene la consapevolezza sociale del consumatore sia talvolta inconstante, oscillando tra il vezzo dell’acquisto e l’attenzione verso il ruolo sociale che le aziende hanno acquisito, è bene ricordare come gli standard di qualità si siano evoluti a ragion veduta dalla certificazione valutativa del prodotto (e del processo) a un approccio più sistemico, secondo il quale la qualità del prodotto può essere garantita dalla gestione delle risorse. Accanto dunque a una responsabilità economica e qualitativa sull’output proposto dalle imprese, si viene a creare una domanda di nuove e più ampie forme di qualità, riassunte nel termine “qualità sociale”. Nasce la Corporate Social Responsibility come la conosciamo oggi, una pratica che conferma il ruolo sociale dell’impresa nei confronti di lavoratori, consumatori e istituzioni. Ma forse, all’evoluzione degli standard qualitativi richiesti alle imprese si deve affiancare una responsabilità del consumatore, tanto più difficile da creare e mantenere.